S. Cassiano nel Medio-Evo

LA CHIESA

LA VISITA DI MONS. ASCANIO MARCHESINI (1573)

CORNETO

IL PICCOLO OSPEDALE DI S. CASSIANO

LA SIGNORIA DEI MANFREDI

GLI STATUTI DELLA VAL D’AMONE

LE NOZZE DI CARLO MANFREDI

GLI ULTIMI PADRONI DEL CASTELLO

 

LA CHIESA

PRIME NOTIZIE

S. CASSIANO deve il suo nome ad un maestro d’Imola del IV sec., poi martirizzato e santificato. E protettore degli scrittori e dei maestri di scuola.

Un’antica leggenda narra come la la chiesa di S. Cassiano fosse edificata dall’Imperatrice Galla Placidia nel 500, sui resti d’un tempio pagano… Con dati certi il prof. Pierino Malpezzi, ricercatore appassionato e rigoroso, molto disponibile trova, in un «actum» del 1052, prima menzione del nostro paese «S. Casciano Vallis Alamonis». Di poco successivo (1073) un altro «Actum» conferma l’esistenza di una prima chiesa parrocchiale, non nel sito attuale, ma «sulla riva destra del fiume Lamone in località “Ca’ Martino” fra i poderi di “Gammata” e “Sganghera”».

Nel Medio-evo infatti le chiese delle borgate si trovavano in cima ai colli od oltre i fiumi per potersi meglio difendere dalle scorrerie dei soldati e dei briganti. Pare che una stretta via mettesse in comunicazione la prima cappella dedi­cata a S. Cassiano con la strada militare romana, sfociandovi nei pressi di S. EUFEMIA.

Alcuni ritengono che un secolo dopo la chiesa si trovasse già nella dimora attuale. I decenni a seguire riportano menzioni più frequenti del luogo o della Chiesa e fanno riferimento, in prevalenza a donazioni di mansi di terra.

Ad un certo punto compare l’appellativo … «In Pidriolo» (Pedrosola?).

Nel 1291 la Chiesa di S. Cassiano appartiene alla Pieve di S. Giovanni in Ottavo.

Mi pare interessante la ricerca di don Vincenzo Cimatti che conferma, am­pliandole, alcune considerazioni già accennate:

«Con l’affermarsi del Cristianesimo nelle campagne si costruirono le pri­me Pievi, dalle quali la nuova fede irradiò e si organizzò con la costruzio­ne di cappelle che divennero in seguito le parrocchie. Tra di esse le più an­tiche ebbero il titolo di Arcipretali.

Nella Valle del Lamone nel secolo IX (?) esistevano la Pieve del Tho o Pie­ve in Ottavo, perché costruita presso l’ottava pietra miliaria sulla via che da Faenza conduceva alla Toscana, e più tardi due cappelle: quella di co,’ di Martino e quella di Fontanamoneta. Queste due cappelle divennero chiese arcipretali con un contorno di piccole parrocchie, molto numerose come si può rilevare dalle carte topografiche dipinte nelle loggie del Vati­cano e dal Decreto di Papa Bonifacio Vili che dispensava le parrocchie più povere dal contributo finanziario per le spese del Giubileo del 1300. Sull’identificazione della cappella di Fontanamoneta non vi sono diffi­coltà. Per quella invece di Ca ’ di Martino con quasi assoluta certezza si può ammettere che essa si trovasse sulla destra del fiume Lamone, vicino al ponte della ferrovia dove fino ad un secolo e mezzo fa si trovava un po­dere chiamato appunto “Ca’ di Martino” e dove i più vecchi ancora ri­cordavano un campo che veniva chiamato ancora il “campo di Martino ”

(vedi archivio parrocchiale di S. Eufemia, libro dei morti del secolo scor­so). Ad un certo punto non appare più la cappella di “Ca’ di Martino, ma la parrocchia di San Cassiano in Petrosa sulle sinistra del Lamone, sulle pendici del castellacelo e il nome ‘Petrosa”, ben le si addiceva; data la morfologia della zona».

In continuità di discorso Pino Bartoli, gentilmente fa sapere di una ricerca eseguita dal prof. L. Costa dalla quale si evince che:

«L’armamento che lascia in eredità don Lorenzo della Pieve di Ottavo, rettore anche della Chiesa di San Cassiano, consiste in un “um par ferro- rum ad faciendum ostias (lo stampo per le ostie), unum libriculum ab baptizandum et dandum alia sacramenta, item alius libriculum in quo est oficium X. pi et passionis S.cti Cassiani, item unum missales, unum lectionarium” e ancora un libercolo (tutti manoscritti poiché siamo nel 1437 eia stampa é ancora da inventare) con l’elenco ragionato delle peni­tenze da assegnare ai peccatori della parrocchia. Inoltre non c’è poi da meravigliarsi se insieme agli oggetti sacri sopraindicati, figura una lunga filza di arnesi agricoli stante le scarse rendite che aveva una chiesa di campagna: il prete espletate le pratiche di culto è costretto a lavorare di braccia per sbarcare il lunario».

LA VISITA DI MONS. ASCANIO MARCHESINI (1573)

Dopo appena un anno di pontificato, Gregorio XIII (1572-1585) inviò nel­la nostra Diocesi, Mons. Ascanio Marchesini come visitatore apostolico.

Il 3 maggio 1573 iniziò la sacra visita in Cattedrale a Faenza; nei giorni a se­guire instancabile e severo, andò in tutte le altre chiese, proponendo delle rela­zioni dettagliate.

Il 3 giugno-raggiunse S. Cassiano (150 anime), dove visitò la Chiesa (co­struita “in Pidriolo”) di cui era parroco da 40 anni, Stefano Antonio di Cavi- na, unitamente all’altra di S. Maria in Corneto. tenuto e ben amministrato.

Per non togliere, agli interessati, il gusto di leggere la relazione della visita, alleghiamo senza ulteriori parafrasi la traduzione dal tardo latino operata da Isabella Matulli.

«Nel III giorno del mese di giugno 1573, fece ingresso nella chiesa parroc­chiale di S. Cassiano costruita in Pidriolo e annessa per sempre con l’altra parrocchiale di S. Maria di Corneto visitata come risulta sopra, delle qua­li sono già state date abbastanza notizie, e resa nota l’indulgenza fu rin­tracciato il rettore Stefano Antonio di Cavina di P. Casale, provvisto di reddito da 40 anni come realmente risulta nelle bolle in possesso: annual­mente scudi 20 e in nuova rendita a vantaggio di entrambe; non ha però facoltà di delega come dicono da queste parti, poiché disse che era stata persa a causa dei lunghi anni trascorsi. Non e conservata la venerabile Eucarestia, né il Santo Battesimo per l’esiguità del reddito di cui sopra. Fu tuttavia invitato il tal (?) rettore a tentare d’introdurre una confraterni­ta del S.S. Sacramento fra i Suoi parrocchiani, se sarà possibile. La quale cosa promise molto volentieri e s’adoprò con ogni sforzo per adempiere tale impegno e ampliarla e ordinò prima di ogni altra cosa di istituire quella società quanto più velocemente possibile, anche se non può essere tenuto il venerabile sacramento, da potersi portare decorosamente l’Euca­restia agli infermi. Ha anche parrocchiani poveri, pochi come numero, non più di 150 anime, e quelli erano pii, cattolici e fedeli cristiani confes­sati e comunicati nel più recente giorno di Pasqua eccetto 4 e che questi, tuttavia, sono stati energicamente richiamati e in verità crede che quelli si ravvederanno in questo tempo di giubileo. Diversamente fu consegnata all’unzione l’osservanza di ogni norma per entrambi i sessi.

Visitò pure l’ospedale di S. Maria (“Hospitale S. Maria”) con annesso ora­torio.  Disse poi di insegnare ai fanciulli e agli ignoranti la dottrina cristiana e di spiegare il Vangelo al popolo nei giorni festivi, di adempiere gli altri incarichi ecclesiastici e che lo stesso rettore aveva risieduto in modo conti­nuo e così fu deciso sotto la pena del concilio e della citata bolla di Pio V di felice memoria. Verificò che l’olio degli infermi era contenuto in un indecente vaso di sta­gno; comandò che fosse contenuto in una scatola di legno e riposto in una piccola apertura vicino all’altare e che questa, quanto prima, sia ben cu­stodita sotto la minaccia di sanzioni e si faccia una borsa di pelle e con cautela sia trasportata agli infermi. Controllò pure il libro dei matrimoni e comandò che fosse ampliato e me­glio descritto e custodito nella chiesa e che fossero meglio divulgati i decre­ti del Concilio di Trento sia a proposito degli altri sacramenti sia gli uffi­ci divini da adempiere con più cura, non trascurando le costituzioni apo­stoliche e sinodali riguardanti i riti e le cerimonie.

Viene sottolineato di porre una maggiore cura sui cresimati e nei loro ge­nitori e padroni, curando, i nominativi e raccogliendo ed istruendo i cre­simandi sulla forza e sull’efficacia e sulla saldezza del suddetto sacramen­to e infine togliendo e respingendo in ogni circostanza ogni abuso e super­stizione, pena la scomunica. Visitò l’altare di un unico blocco di pietra con il viatico in un tabernaco­lo provvisorio, fino a che non si provveda successivamente e venga forni­to del necessario con immagine e crocifisso dorato, anche vecchio; coman­dò che fosse riadattato e riparate le parti rovinate da una recente pittura, trattandosi di una cosa abbastanza bella.

Ordinò anche di provvedere ad un altro palio dorato, con un certo aiuto da parte dei parrocchiani per tutto il mese di settembre del corrente anno e similmente di rimuovere la campana vicino all’altare e collocarla a lato dell’ingresso della chiesa e di proibire ogni andirivieni, di portare armi di ferro e altri comportamenti indegni all’interno di una chiesa, conforme­mente alla bolla di Pio V di felice memoria.

Come ricordo abbia quello di pubblicare la bolla in “Coena Domini” ogni anno, sotto la minaccia di sanzioni. Disse di avere molti libri che ne­cessitavano di manutenzione: ordinò che fossero nominati coloro i quali si prendessero cura dell’insieme e dei paramenti sacerdotali. Visitò la sa­crestia con l’altare ampliato, dove disse che era solito celebrare col consen­so del vescovo, là fece porre una croce di legno, e sconsacrò l’altare portatile ed anche un calice di stagno, ha un altro bel calice dorato con piccole catene d’oro e i dovuti fregi.

Permise che si celebrasse con reperti del corpo abbastanza in cattivo stato, e bucati, con altri davvero in buono stato, pena la sospensione, e con altri ancora. Ha soltanto una pianeta di modico valore, ordinò che se ne facesse un’al­tra più decorosa in relazione all’attuale dignità, coi sacramenti necessari; pena sanzioni lo (stesso?) rettore mostrò l’involucro e il rotolo di… (ordinò) delle tele di lino per tessere un altro paramento quanto prima, e ordinò che si facesse l’inventario di tutta la mobilia buona della chiesa e di consegnarlo entro 8 giorni, sotto minaccia di pena.

Il signore si recò nella chiesa, ordinò che la si riparasse, con una certa co­modità di tempo, dove la si trovò discrostata, per il resto la trovò pulita e ben chiusa, con un cimitero, ordinò che tutto fosse tenuto meglio. Si riferi­sce che fu scelta un ’altra visita fatta nella suddetta parrocchia al suddetto rettore.

Quando fu incaricato di osservare, e di adempiere le disposizioni, le indi­cazioni e i decreti, promise che avrebbe provveduto di persona, pena la scomunica ed altre sanzioni. Il signore non trovò il vicario dell’ispettore destinato alle suddette chiese unite, così come in altre similmente. Nel suddetto giorno visitò l’ospedale di Santa Maria, vicino alla già citata chiesa di S. Cassiano, in cui non trovò priori, tuttavia ordinò che fosse lo­ro notificato tramite il già citato D. Casale.

Convocò quelli presenti e gli altri assenti che si presentassero all’ispettore entro 3 giorni, coi libri e i loro capitoli, per essere edotti sulle cose necessa­rie da farsi, e di rendere note le disposizioni ad una parte dell’ammini­strazione, per il debito provvedimento, da farsi conformemente alle di­sposizioni del sacro Concilio di Trento, e di non tener conto di nessun’al­tra. Frattanto il signore si compiacque perché trovò l’edificio ben ordina­to e ben amministrato, e provvisto delle strutture di cui necessitavano gli altri ospedali in precedenza visitati, non si trovarono, come nella già cita­ta casa, letti duri, ma giustamente letti a 2 materassi per i malati, e i pel­legrini, e con molte altre comodità, ha un luogo di preghiera vicino e una graziosa cappellina con l’altare e la facciata decorata con le sacre immagi­ni della gloriosissima Vergine e di altri Santi.

Ordinò di adornare il suddetto altare con vasi e candelabri e al più presto con una croce decente, e allo stesso modo ordinò di chiudere bene finestre e porte e conservarlo ben coperto.

E non ancora per quanto riguarda il tutto, pena la scomunica e altri provvedimenti disciplinari, e, sempre sotto la medesima pena, consegnare un inventario della mobilia di valore entro otto giorni, e dello stabile del suddetto ospedale, poiché a quella pietà si addice la prudenza, e si ammi­nistri più accuratamente e a quelli torni a vantaggio, e inutile a lui, e che si riportino all’utilizzo cui sono destinati, e si paghino e allo stesso modo si amministri la legge adatta da parte di coloro ai quali spetta, e che quan- , to ordinato non venga stravolto a qualsiasi titolo, ma di quelle cose, anno per anno, venga reso il dovuto rendiconto, come la disposizione in propo­sito al reverendissimo vescovo. E vietò che si fosse invidiosi, che si sparlas­se e che si ammettesse il (non vero) falso, e quando passò alle vie di fatto, i malati e i miserabili, purché fedeli, e di buona condotta e reputazione, e di costumi non indegni, secondo che tanto il preposto rettore e gli altri presenti lodarono i priori, perché erano ricchi, pii, cattolici, diligenti e fe­deli, che mettevano rettamente in pratica, e amministratori e proibitori ri­spettivamente di quanto detto sopra, ed anche che si soleva celebrare, nel giorno della nascita della S.S. Vergine, nella cappellina già citata, molte messe per i benefattori. Perciò dopo la messa il prossimo mandò, sotto la minaccia di sanzioni, a prendersi cura delle cose sovraelencate, e a coloro fra i presenti incaricati della chiusura perché non entrassero le galline, perché aveva trovato delle tracce, e che non ci fosse nessun’altra profana­zione, o volere contraffatto, e dissero del suddetto ospizio aver reso in un anno circa 15 scudi, chi distribuendo i quali al bisogno per il suddetto uso, tuttavia mandati a chiamare i suddetti priori, si ebbe un ’informazio­ne più precisa riguardo a quanto detto sopra».

Terminata la visita il Marchesini si recò nelle chiese limitrofe: il 7 e l’8 giugno a Brisighella; il 9 mattina alla Pieve del Thò e di pomeriggio a Fognano.

 

CORNETO

«La Chiesa di S. Maria di Cometa é attestata, nelVambito plehano di S. Giovanni in Ottavo, dalle “Rationes Decimarum” del 1291.

Notizie più ampie abbiamo dalla visita pastorale del 1573, che registra la chiesa di S. Maria come bisognosa di restauri “quia minatur proximam ruinam”; al visitatore, che non vi trova nessuno, viene riferito che la maggior parte dei parrocchiani utilizza la vicina chiesa di S. Cassiano, il cui rettore viene di quando in quanto a dire messa anche a Corneto. Anche il cimitero risulta abbandonato: testimonianza chiara del progres­sivo abbandono della località da parte della popolazione circostante, che fa ormai riferimento a S. Cassiano.

Nei pressi di Cometa si trova anche un piccolo oratorio (cella), con i mu­ri dipinti (S. Maria è invece senza immagini), dedicato a S. Sebastiano; il visitatore annota che l’oratorio e ben chiuso e le bestie non vi possono en­trare: segno che ciò solitamente accadeva. Oggi in questo luogo si notano alcuni edifici cinquecenteschi abbandonati e parzialmente crollati; di particolare pregio e una casa-torre con timpa­no a cornice d’arenaria e rosone in mattoni».

(dal libro: “Insediamento storico e beni culturali. Comuni di Brisighella…” I.B.C. Regione Emilia Romagna)

Poco distante da «Corneto di Sopra» sorgeva «una piccola ma rinomata fon­deria artigianale di campane e mortari». Si fabbricavano anche archibugi e oro­logi da torre.Ormai tutto è andato distrutto dal tempo e dall’incuria dell’uomo.

 

IL PICCOLO OSPEDALE DI S. CASSIANO

Dagli appunti del compianto Maestro Carroli di Brisighella, a seguito di un incontro nel cinema parrocchiale:

«L’esistenza di un ospedaletto in S. Cassiano è convalidata da antiche te­stimonianze.

Nel libro del sinodo tenuto dal card. Rossetti, vescovo della diocesi faenti­na, conservato nell’archivio parrocchiale di Brisighella che risale al secolo XVII, si legge a proposito dell’ospedale di S. Cassiano: “Una messa la set­timana e sei messe di S. Bastiano ogni anno all’altare dell’Hospitale per antica consuetudine”.

Nella pianta dove e tracciato l’itinerario della via consolare o maestra, che risale al 1737, la località, di S. Cassiano e rappresentata sinteticamen­te da quattro edifici: la chiesa, l’ospedale e da due case fra cui una destina­ta a dogana (di cui parleremo in seguito) e che trovo in una successiva carta del secolo scorso custodita nell’archivio dell’ufficio tecnico del Co­mune di Brisighella. Nella raccolta delle assegne, conservata nell’archivio comunale di Brisighella, si trova un certificato, recante la data 30 luglio 1778, dell’amministratore dell’ospedale di S. Cassiano Giacomo Lega, e vistata dal notaio brisighellese Tommaso Liverzani, dove si dichiara che il venerabile «Ospedale di San Cassiano sotto l’invocazione di S. Fabiano e di S. Sebastiano possiede nella scuola 61 tornature e dieci.piedi di terra (circa 13 ettari) con sopra una casetta disabitata.

Nel ristretto intitolato «Operazione» (un elenco dove sono riportate le principali caratteristiche degli ospedali ed opere pie passate sotto la giuri­sdizione della Congregazione di Carità nel 1799), conservato nell’archi­vio delle OO.PP.RR. di Brisighella, è così ricordato l’ospedale di S. Cas­siano: “Di origine oscura. E gravato della Festa dei SS. Martiri Fabiano e Sebastiano e suo anniversario; della Festa della Natività di Maria Vergi­ne; di una messa settimanale, nonché di un legato di libbre due di pane per ogni abitante delle parrocchie di San Cassiano e di Sant’Eufemia. Ha per scopo il trasporto degli Esposti”.

E se ciò non bastasse nel libro del catasto del 1812, presso l’archivio comu­nale di Brisighella, la Congregazione di Carità possiede una casa ad uso ospedale confinante con la strada maestra del valore censibile di 2 lire e 6 soldi.

La mancanza di qualsiasi indizio relativo all’epoca e a chi fondò l’ospedaletto fa ritenere che la sua origine sia medioevale. In Romagna e nel no­stro territorio, in quell’epoca esisteva una rete di piccoli ospedali in fun­zione non già di ricovero di ammalati, ma di pellegrini per brevi soste e mantenuti da lasciti e donazioni di privati cittadini la cui discendenza stava per estinguersi oppure per suffragare la propria anima.

A conclusione dell’argomento, una considerazione inerente al trasporto- degli esposti. Con questo termine erano conosciuti i fanciulli abbandona­ti dai genitori i quali venivano provvisoriamente ricoverati in questi pic­coli ospedali che provvedevano in un secondo tempo a trasferirli in quello di Faenza.

Qui venivano presentati (esposti) ogni tanto alla carità pubblica o alle persone eventualmente disposte ad adottarli. (…)

Non era infrequente poi che qualche colono della nostra zona, per man­canza di mano d’opera, fosse intenzionato di adottare qualche fanciullo per adoperarlo in seguito come garzone.

Già Mons. Marchesini (1573) nella sua visita aveva annotato la presenza di un decoroso e ben tenuto ospedale con due materassi per malati e pellegrini e una piccola cappella decorata vicino.

Ben poco si sa invece della sua fondazione e della sua locazione più proba­bile. Qualcuno azzarda che il castello stesso, sguarnito delle difese e abbando­nato, fosse in una parte utilizzato come Ospitale e nel restante adattato per abitazione di molte famiglie.

 

POSSEDIMENTO DI MAGHINARDO PAGANI

Per mancanza di documenti certi l’origine del castello permane avvolta ne. mistero.

La prima menzione sicura del «castrum sancii Cassiani» risale al 1292. In tal periodo era possesso di Caterina di Ugolino dei Fantolini da Zerfo- gnano e, per successione, del marito Alessandro di Romena (della famiglia de: Conti Guidi). Così narra l’episodio il Cantinelli, cronista e storico contemporaneo:

«… Poi nello stesso anno (1292)… nel mese d’aprile Maghinardo, capitano del popolo di Faenza, con cittadini e soldati della stessa si diresse a cavallo verso i monti e pose l’esercito intorno al castello di S. Cassiano Val di La- mone e che il conte Alessandro di Romena governava per sua moglie Agnese Caterina…

Rimase con l’esercito 5 giorni gettando con mangani pietre in quel castel­lo nel quale erano ben 200 persone tra uomini, donne, bambini; e questi, per la mancanza d’acqua che non avevano né potevano sperare di riceve­re, gli consegnarono il castello accettando le deliberazioni e il dominio del Comune di Faenza e (Maghinardo) fece distruggere lo stesso castello, tutte le sue fortificazioni e tutte le mura; fece gettare le stesse pietre giù dal monte…».

MAGHINARDO era l’ultimo rampollo della famiglia dei Pagani che ave­vano la loro residenza abituale a Susinana, presso Palazzuolo e godevano della benevolenza e della tutela del Comune di Firenze interessato ad attestarsi in qualche modo al di qua dell’Appennino.

Fu definito da Dante, che lo odiava, «dimonio», e «leoncel dal nido bianco che muta parte dalla state al verno» con chiaro riferimento allo stemma dei si­gnori di Susinana (che ora è del Comune di Faenza) e alla spregiudicatezza del­la loro condotta politica. Il suo sogno era quello di realizzare l’unità politica delle vallate «di Lamone e di Santerno» e a questa, flessibile e autoritario si adoperò.

E inutile qui elencare le imprese di cui si rese protagonista. Ricordiamo soltanto che egli si pose in conflitto con il Rettore di Romagna dell’epoca Ilde- brandino Guidi da Romena, vescovo di Arezzo che pretendeva da Forlì e Ra­venna un tributo annuo di 26.000 fiorini d’oro per recuperare gli scarsi van­taggi economici derivati dall’integrazione della Romagna nello Stato della Chiesa.

Quando il Guidi tentò di far pagare i Forlivesi che si erano rifiutati, questi chiesero aiuto a Maghinardo e ai Faentini che sconfissero le milizie della Chie­sa. Per odio contro Ildebrandino e tutti i suoi consanguinei (i Guidi) Maghinardo assalì e occupò quasi tutti i castelli della valle, compreso quello di S. Cassiano.

Se questa può essere la causa prima dell’occupazione, la distruzione com­pleta può essere giustificata soltanto con la posizione strategica del nostro ca­stello che, dal passo obbligato delle Pendici dominava la Valle del Lamone precludendo agli stessi Pagani il passaggio verso i domini toscani.

Nell’anno seguente 1293 Maghinardo dilatò ulteriormente i suoi possedi­menti; infatti, come ricorda il Tonducci:

«… andò con la milizia faentina contro la Rocca di Monte Maggiore… e se ne fece padrone, e il 7 agosto comprò da Ugone d’Auguzano, come erede di Parenzia sua sorella, tutte le ragioni che aveva dal Ponte di S. Cassia­no fino alla sommità delle Alpi per lire 200.

Nel quale istrumento, che si trova appresso gli eredi del Dott. Paolo Cal­deroni, osservo le parole — SIT. IN TERRITORIO FAUEN. A’ PONTE S. CASSIANISURSUM USQUE AD IUGUM ALPIUM – …».

Evidentemente a S. Cassiano esisteva un Ponte abbastanza importante se poteva essere assunto come punto di riferimento. Probabilmente era un tra­mite obbligato di transito. Maghinardo, pur non vedendosi proclamato formalmente signore, aveva dunque coronato il suo sogno di «condurre» le due vallate del Lamone e de. Santerno.

Morì il 27 agosto 1302 a Benclaro (presso S. Adriano); infelice per non ave­re figli maschi cui lasciare i possedimenti e l’aspirazione all’unità politica della Romagna.

Nel testamento, dopo aver chiesto d’essere sepolto in abito da Vallombrosano, regala molti dei suoi beni ai vescovi; lascia alla figlia Andrea (Patetica questa scelta d’un nome maschile!) Susinana, Cepeda, ecc.; alla secondogenita Francesca, moglie di Francesco Orsini, Benclaro, Gattara, Popolano ecc.

La stirpe di Maghinardo finisce dunque con il compiacimento di Dante che annota: «Ben faran i Pagan da che il demonio/lor sen gira». (Purgatorio, canto XIV).

 

LA SIGNORIA DEI MANFREDI

Col declinare della stella di Maghinardo P., presero corpo in Faenza, le for­tune dei MANFREDI e ad esse il castello di S. Cassiano legò la sua storia, sal­vo brevi tratti di diretto dominio papale, fino al 1504 quando divenne posses­so dei Veneziani che ne decretarono la demolizione (1506).

La signoria dei Manfredi si formò gradatamente: «si disegnò timidamente, apparve e disparve, e finalmente si consolidò e si affermò». Le prime menzioni ri­salgono poco oltre la II metà del sec. XI. Colui che però è considerato il capostipite della Signoria manfred’iana è FRANCESCO MANFREDI che; tra l’altro, godette di lunga vita. Nel 128: fu tra i protagonisti dell’efferato crimine della «mala frutta» col quale, a Cesa­to, furono assassinati proditoriamente il cugino Manfredo Manfredi e il di lu: figlio.

Il periodo storico non era dei più felici. L’autorità Papale aveva scarso pese dalla sede di Avignone; si eleggevano antipapi; i costumi degli alti prelati era­no disinvolti e contrari ai principi che professavano; il tradimento e la disob­bedienza dei nobili diventavano una regola dell’agire; l’interesse e la ricchezza privati dominavano sull’utile pubblico.

Alla morte di Maghinardo (1302) Francesco riprese di nuovo le redini de. governo faentino e il 12 gennaio del 1313 sotto il titolo “modesto e apparente­mente democratico” di difensore del popolo si insediò nel Palazzo Pubblico (Ascendit palatium pro defensione populi).

Eletto poi Capitano del Popolo, nel 1322 si FECE CON LA FORZA CHIAMARE SIGNORE DI FAENZA e per quattro anni la resse in tal mo­do…

Franciscus de Manfredis… per vim fecit se vocari dominum faventiae, per quatuor annos rexit eam tam quam dominus. In questo periodo il nostro castello, ricostruito, finì come altri nella valle, nelle mani di F. Manfredi signore della città. La torbida potenza di tale famiglia convinse gli Imolesi a chiamare come Capitano del Popolo Riccardo Manfredi (figlio di Francesco) che, nel 1324. «raccomandò» al padre il Castello di Calamello e ad Alberghettino (suo fratel­lo) quello di S. Cassiano. In sua assenza dovevano proteggerli e conservarli al­la Signoria.

Alberghettino però si rodeva per lo scarso prestigio e la scarsa considera­zione di cui godeva rispetto al fratello e al padre; così spinto da ambizione in­cominciò a tramare per impossessarsi del territorio dei consanguinei.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1327, approfittando della lontananza di Francesco da Faenza, entrò con i suoi seguaci nella città e l’occupò dichiaran­dosene Signore.

Il padre venuto a conoscenza del tradimento marciò alla volta della città con il figlio Riccardo e con le armate del Cardinal Bertrando, Legato Pontifi­cio (20 maggio 1328). Dopo quasi un mese d’assedio la città cedette.

Per evitare una brutta fine Alberghettino trattò la resa e lasciò libero cam­po al Legato Pontificio. Col ristabilirsi dell’autorità ecclesiastica, il 26 agosto 1329 Francesco e i fi­gli Riccardo e Malatestino rientrarono senza un diretto predominio sulla cit­tà, ma come famiglia estremamente potente. Ne è attestazione la vendita fatta da Francesco a Riccardo e a Malatestino di molti beni e castelli in Val d’Anio­ne e il prestito di una buona somma di danaro fatta al Comune.

La Rocca di S. Cassiano spettava a Riccardo che però essendo uomo d’azio­ne e d’armi la diede in custodia a Malatestino.

Giovanni, figlio di Riccardo Manfredi diede lustro, per qualche tempo, alla dominazione manfrediana, ma nel 1368 perse ad opera della Milizia Ecclesia­stica del Legato Anglic Grimoard De Grisac il dominio di Bagnacavallo e della maggioranza delle Rocche e dei castelli, conservando solo quelli di Calamello, Fornazzano e S. Cassiano. Quasi subito perse anche il nostro castello e, poco più tardi, morì a Pistoia dove si era rifugiato. Piero Zama definisce la Rocca di S. Cassiano «un miserevole luogo nella ps* te più impervia dell’Appennino Romagnolo» in relazione forse alla sua locaz::- ne decentrata e di confine.

A. Lega invece fa considerazioni diverse: «Abbiamo mostrato come quesm Castello era una delle chiavi che apriva l’adito, tanto a chi dalla Romagna si rejt va in Toscana quanto a chi dalla Toscana scendeva in Romagna; onde non e J njeravigliare se nel 1370 la Repubblica Fiorentina aspirava a possederlo».

Nel 1370 infatti ci furono controversie tra la Repubblica Fiorentina e G. vanni di Alberghettino Manfredi per il possesso di alcuni castelli e luogjjl dell’Appennino (Premilcuore, Castiglionemo, Gattara, Gamberaldi, S. G siano, Monte Maggiore). In quest’ultimo luogo, nell’abitazione di Alberghi tino fu stipulata la pace con i priori di Firenze che gli riconobbero i possessi] ; questione.

Nel 1371 Giovanni di Alberghettino Manfredi ottenne dalla chiesa, cambio della sua fedeltà, anche le altre parti di Marradi e Biforco e «nel terra ( rio faentino il Castrum di S. Cassiano, posto lungo la strada maestra che da Fa-y za va a Firenze».

Nel 1371 il Cardinale Anglic governatore ecclesiastico di Romagna, feal redigere un censimento dettagliato (Descriptio Romandiolae) del territori romagnolo. Fuochi, focolari o fumanti erano termini sinonimi; ciascuno corrispondeva ad una famiglia organizzata e autonoma, composta alPincirca da 4 o 5 elemen­ti. I piccoli villaggi erano organizzati in Villae o Scholae quando avevano la popolazione sparsa sul territorio.

Ogni semestre tra gli abitanti veniva eletto un massaro che aveva il compi­to di stimare le terre perché su esse fosse applicata un’imposta. Le frazioni si organizzavano in «castrum» quando si trattava di un agglomerato di case cinte da qualche opera difensiva oppure costruite vicino ad un castello. «Villae» erano S. Adriano (20 focolari), Popolano (27 focolari), Marradi (60 focolari), Valle Acerreta (118 focolari), Valpiana (18 focolari), Boesimo (42 fo­colari); mentre «Castra» erano Gamberaldi (15 focolari) e Biforco (55 focolari).

Nel 1371 «Villa Sancti Cassiani curri Castro» conteneva 36 Focolari (circa 160 persone?).

Nel 1376 dipendeva dal distretto della Rocca di Calamello, molto impor­tante all’epoca, con un castellano che percepiva 60 fiorini al mese. Ne era si­gnore Astorgio Manfredi.Costui, a causa delle persecuzioni di Alberico da Barbiano che produssero carestia ed esodo di cittadini, fu costretto a trattare col Legato Pontificio Bal­dassarre Cossa, per mezzo del figlio Gian Galeazzo.

Nel 1404 decise la cessione di Faenza per 10 anni alla Chiesa e con essa (ma per 5 anni) di tutte le Rocche e i Fortilizi di Val d’Amone e del contado d’Imola: cioè Brisighella, Gesso, Rontana, Calamello, Fernacciano, S. Cassia­no, Ceparano, Boiuxino (Boesimo), Monte Maggiore, ecc. ecc. Ricevette in cambio 200 fiorini d’oro al mese e l’assoluzione da ogni pena…

Nel 1410 (?) il Cardinale Cossa divenne antipapa col nome di Giovanni XXIII e diede i territori del Distretto di Calamello a Ludovico Manfredi, suo seguace e Signore di Marradi per «l’annuo censo dì un bracco e 5 falconi». A ciò contribuì l’aver Gian Galeazzo occupato a Ludovico il Castello di Gattara.

Gli abitanti della vallata e quelli del nostro Castello che vantava un grosso Contado di gente forte e litigiosa si mantennero fedeli («Fideles») al Papa Gre­gorio XII che con atto pubblico riconobbe a Conte e Signore Gian Galeazzo Manfredi il quale si impegnava a battersi ovunque contro l’antipapa.

 

GLI STATUTI DELLA VAL D’AMONE

In tale periodo Gian Galeazzo si adoprò alla stesura degli Statuti della citi e della Contea Manfrediana della Val d’Amone: ereditaria e perpetua. Di quest’ultima poteva trarre i suoi armati. «E si sa che i brisighelli cioè quelli t Brisighella e dintorni avevano fama di bellicosi e furono detti i primi soldi d’Italia».

G.A. Calegari conferma:

«Sono gli huomini di questa valle naturalmente inclinati a l’armi et alla guerra, et in questo si esercitano buona parte del tempo; e quantunque sii­no contadini, che lavorano la terra, maneggiando tuttavia almeno i gior­ni de le feste l’armi, e’ si reputano a gran vergogna se non si ponno gloria­re di essere stati una o più volte a la guerra e nelli eserciti formati».

A proposito di alcune disposizioni contenute negli Statuti e della bellica tà dei valligiani sono utili anche gli appunti del Carroli:

«… In questa occasione Giangaleazzo incaricò il suo vicario Bernardo da Casale di redigere gli Statuti della novella Contea dove, fra le molteplici disposizioni, troviamo che il pagamento del pedaggio deve essere effettua­to in S. Cassiano, oppure, su volere del Visconte, a Brisighella. A titolo di curiosità, la tariffa del pedaggio e fissata come segue: un cavallo un solido di bolognini, un mulo carico due solidi, un asino pure carico sei denari, una bestia grossa due solidi, una bestia piccola quattro denàri.

La norma statutaria, contenuta per la precisione nella rubrica ventitree- sima, induce ad alcuni rilievi assai interessanti che potrebbero, in prosie­guo di tempo, essere ampliati con opportuna ricerca.

Innanzi tutto, la preposizione incidentale contenuta nel primo periodo della norma statutaria: quod est solitum exigi antiquitus in Sancto Cassiani, da tradursi: che era solito una volta esigersi in S. Cassiano, fa supporre che in quel luogo fosse stato istituito un antico teloneum, cioè un’esattoria dove si riscuoteva il pedaggio destinato al mantenimento della strada.

A questo punto occorre anche mettere in luce l’intelligente e felice in­tuizione relativa alla scelta del luogo in cui esigere la tassa e vediamo il perché. La cosiddetta via consolare o maestra, sulla falsariga dell’antica costruita dai Romani (secondo una precisa consuetudine di costeggiare i fiumi nel fondo valle per evitare la costruzione di ponti — che data la mancanza di opere di artigianato — sarebbero stati facilmente distrutti dalle piene), non seguiva l’odierno itinerario oltre il ponte di Marignano, ma attra­versava l’abitato di S. Martino in Gattara, e proseguendo per case Batti- stoni, raggiungeva l’abazia di Campora che segnava il confine con lo Sta­to Toscano.

In genere il pedaggio veniva riscosso sul confine, ma nel caso nostro ciò non risulta e la spiegazione è semplice: la valle dopo il passo delle Pendici si allarga sensibilmente e qualsiasi mercante che percorresse questo tratto di strada col proprio carico di merce, avrebbe potuto eludere facilmente nei mesi estivi il pagamento della tassa di pedaggio attraversando a gua­do il Lamone e seguendo il probabile sentiero sulla riva destra del fiume. Altra conferma della felice scelta è data dal fatto che i Veneziani, durante il breve dominio sulla valle, e il governo pontificio ritennero opportuno mantenere in S. Cassiano la riscossione del dazio.

Il lungo periodo in cui i Manfredi furono Conti della valle del Lamone fu caratterizzato da una politica di consolidamento del proprio dominio prima e di ampliamento dopo, e tale politica fu costantemente appoggiata alle armi, dando origine ad una continua instabilità che impedì un con­trollo sull’ordine nella valle, tanto che assistiamo a molte liti anche cruente, tra varie famiglie della valle, per futili motivi.

Non ne furono immuni neppure alcune famiglie di S. Cassiano: la fami­glia dei Verreti scese nel 1458, come dice il Metelli, a giurare sospensione d’arme coi Benini, gli stessi Benini nel 1458 si rappacificarono con quelli di Velie. Purtroppo non ho potuto conoscere i motivi di queste liti perché l’archivio notarile deve essere ancora riordinato».

La litigiosità decadde quando, verso la fine del 1463, la vallata del Lamone al pari di altre fu colpita dalla peste. Le persone fuggivano dai centri abitati e si rifugiavano nelle campagne. Nelle case e nelle chiese si levavano preghiere per la cessazione di tale flagello. In questo periodo a Fognano fecero voto di costruzione di una nuova Chiesa a cui posero mano l’anno seguente col dileguarsi del morbo.

 

LE NOZZE DI CARLO MANFREDI

A Faenza, nell’agosto del 1471, si celebrarono le nozze tra Carlo Manfredi e Costanza Varano, figlia del Signore di Camerino, giovane avvenente e ancora ventenne.

Vi partecipò anche il nostro castellano con lo stendardo bianco e azzurro con bue d’oro.

Piero Zama racconta i particolari della cerimonia:

«Fu quella una grande e solenne giornata di pubblico gaudio. La sposa fu accolta nella città che già si abbelliva, secondo il cerimoniale di circostan­za, e con tutto lo splendore possibile. Scesero dalle prossime colline della Val di Amone e vennero da ogni altre luogo della vallata e del contado i castellani e quanti rivestivano una ma­gistratura manfrediana.

L’adunata di tanta gente era fuori della porta della città: quasi certamen­te fuori della porta detta delle Chiavi, all’estremità del Borgo Durbecco, poiché la sposa doveva giungere dalle parti del forlivese, e lungo la via Emilia. E forse il nome di Porta delle Chiavi che tuttora si conserva m quella porta deriva da questa e da altre simili cerimonie.

Un notaio del tempo, Girolamo Moncini, ci ha conservato una minuta descrizione di quel ricevimento; e di essa vogliamo dare almeno un sunto, poiché vengono anche ricordate bandiere e stemmi che sono di interessi particolare per l’araldica faentina.

Annota dunque il buon notaio negli ultimi fogli di un suo volume de. protocollo, che assistevano all’ingresso di Carlo e di Costanza i rappresen­tanti dei castelli e delle torri che ubbidivano al signore di Faenza, e fra g.: altri c’era il castellano di Gattara con otto uomini del luogo e col suo stendardo rosso portante sul campo un cinghiale nero trafitto da una lan­cia. C’era il castellano di Calamello con otto uomini e lo stendardo rosso portante un giglio; il castellano di Monte Mauro con lo stendardo tossì portante una spada infilata in tre corone; quello di Fornazzano col sue stendardo azzurro portante cinque colombe volanti; quello di San Cassia­no con stendardo bianco e azzurro portante un bue d’oro dritto; quello a: Ceparano con lo stendardo rosso portante un ariete d’oro e trave bianco t la catena intorno; quello di Rontana con lo stendardo verde portante un braccio coperto d’armatura e l’arco allentato senza freccia nella mano; ì quello della Pietra con lo stendardo bianco portante una volpe dritta, ros­sa e coronata.

Tutti costoro stavano fuori della porta, mentre più vicino alla porta me­desima, sui due lati, stavano i priori dei quartieri con i loro uomini ar­mati di lancia e con le bandiere, e cioè gli uomini del quartiere di porta Imolese col gonfalone rosso portante un braccio armato di spada, quelli di porta Montanara col gonfalone verde portante tre monti d’oro e tre stelle, quelli di porta Ravegnana col gonfalone bianco portante un pino e una moneta d’oro nel mezzo del tronco, e quelli diporta del Ponte con lo sten­dardo giallo portante una torre a due ordini di merli, fasciata tre volte di rosso.

Erano poi sulla porta il Priore degli Anziani col gonfalone della città, e accanto a lui erano i giudici e i loro vicari, e cioè il giudice dell’Aquila, quello del Bue, e quello del Cavallo; e c’era anche il castellano della rocca col gonfalone bianco e rosso e il leone nel campo bianco.

Quando gli sposi giunsero, tutte le bandiere si inchinarono, si diede fiato alle trombe, e cembali e nacchere suonarono.

Il Podestà, con gli Anziani che erano nel Borgo dove stavano schierate le truppe a piedi e a cavallo, si fece innanzi subito e presentò le chiavi della città alla sposa, mentre il Priore le offriva il gonfalone. La sposa ringra­ziando curtesemente restituì il tutto dicendo: custodite gelusamente per mio marito, per me, pe’ nostri dissendenti et successori. La Madonna sede­va sopra un cavallo bianco coperto di velluto cilestro recamato d’oro so­pra una rete d’argento cum fiocchi quasi fino in terra. Et era belisima (sic) et alta et grassa. Vestiva de velluto rosso rechamato d’oro et di perle cum lo scacchiere et mori di sua casa, et una cintura simile, et subto se apriva indi un abito de raso biancho sementato di rose cum grande cola- na al collo et nel capo uno cerchio d’oro che se perdeva fra capelfi d’oro che in anella le cadevano su le spalle et sul dorso, e da cui pendeva di die­tro un velo bianco lungo largo et recamato d’argento”

“Carlo cavalcava un cavallo bianco coperto de velluto nero ricamai: d’argento et oro et vestiva un abito de velluto verde cum giubbone et cal­zoni de raso bianco a pieghe chermisine et burzacchini gialli cum nastr. I ricamati cum perle. Alla spalla sinistra portava un mantello de velini: | paonazzo fuderato de raso bianco recamato largamente intorno d’oro fermato sul petto de cordoni et fiochi d’oro cum i ‘salassi’. Aveva intorno I al corpo le bande di cuoio dorato et ricamato chiuse al petto da una fibbisì d’oro cum perle et rubini et sustenente la spada ricchissimi (sic) et gli sp roni d’oro che gli diede Federico III Imperatore in Bulogna quando lo fet cavaliere aurato. Dalla spalla sinistra al fianco destro pendeva la banca cillestra ricamata d’oro che gli aveva donato Costanza cum gli fu promt sa sposa”».

 

GLI ULTIMI PADRONI DEL CASTELLO

Tra i governatori della Valle nel 1477 compare a Faenza Tonio di Baruffo di S. Cassiano venuto a giurare fedeltà a Ottaviano Manfredi (succeduto a Carlo).

Salito al potere Galeazzo Manfredi, la difesa del castello di S. Cassiano fu affidata a Galasso di Vasio De’ Bianchelli da Vernello. Un lungo strascico di rancori e vendette convinse il signore di Faenza a cambiare tutti i castellani della valle. A reggere S. Cassiano impose un uomo astuto ed ardito, Giovanni Matteo di Panzavolta. Una bolla pontificia del 1499 di Alessandro VI dichiarò decaduti i Manfre­di dal Vicariato faentino. Il 4 novembre del 1500 le truppe di Cesare Borgia (gonfaloniere della chiesa) occuparono Brisighella e tutta la Valle del Lamone fino alla morte di Alessandro VI.

Grazie agli uffizi di Dionisio di Naldo, quasi tutti i castelli, nel 1504, diven­tarono dominio della Repubblica Veneta «la quale ricambiava questi acquisti con molte grazie e concessioni alla nostra valle». Ai lagunari subentrò Francesco Maria Della Rovere, Duca di Urbino e co­mandante delle truppe pontificie inviate da Giuglio II per sottomettere la re­gione e da tale data la nostra storia segue quella dello Stato della Chiesa fino al 1859.

 

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